grazie a tutti...
avendo deciso di prendermi una vacanzetta dal forum mi son detto: bah... non sarà da maleducati non salutare gli amici della sezione street e reportage? e se lo devo fare, cosa scrivo?
lo faccio cercando di rendermi utile (come ho sempre cercato di fare, nel mio piccolo e senza riuscirci)... vi posto una parte de "il momento decisivo" di HCB, per chi non lo avesse già letto, con la fioca speranza di colmare qualche lacuna...
arrivederci...
HENRY CARTIER-BRESSON
THE DECISIVE MOMENT (II momento decisivo)
da The decisive moment, Simon e Schster, New York, 1952. Come molti altri ragazzi, il mio approccio alla fotografia avvenne con una Box Brownie, che usavo per le istantanee durante le vacanze. Fin da bambino mi piaceva moltissimo disegnare ed andavo a lezioni il giovedì e la domenica, quando le scuole francesi sono chiuse.
A poco, a poco, incominciai a scoprire in quanti modi diversi potessi giocare con la macchina fotografica. Dal momento in cui cominciai ad usarla coscientemente, non feci più le tipiche foto da vancaze né i ritratti banali degli amici. Divenni serio. Ero sulle tracce di qualcosa, e mi davo un gran da fare per scoprire cosa fosse. Da alcuni dei più bei film ho imparato a guardare, a vedere. "I misteri di New York", con Pearl White, i grandi films di D. W. Griffith: "Broken Blossoms"; i primi films di Stroheim; "Greed"; "Potemkin" di Eisenstein; e "Giovanna d'Arco" di Dreyer, questi furono alcune delle cose che mi colpirono di più.
Più tardi incontrai dei fotografi che avevano alcune delle stampe di Atget; le considerai notevoli e di conseguenza mi comprai un treppiedi, un panno nero e una macchina di legno di noce del formato 3"x4".
La macchina aveva al posto di un otturatore, un coperchio per la lente che si poteva togliere e mettere, per regolare l'esposizione. Quest'ultimo particolare, naturalmente, mi costringeva a limitarmi al mondo statico. Gli altri soggetti fotografici mi sembravano o troppo complicati o "roba da dilettanti", e in quel tempo mi sembrava che, disprezzandoli, mi potessi dedicare all'arte con la "A" maiuscola.
Poi, incominciai a sviluppare questa mia Arte nel lavandino. Il fatto di essere uno "tutto-fare" fotografico, mi sembrava divertente; non sapevo nulla della stampa e non avevo la minima idea che certi tipi di carta dessero stampe morbide, mentre altre davano stampe fortemente contrastate. Non mi preoccupavo molto di questi problemi, sebbene mi arrabbiassi sempre quando le immagini non risultavano bene sulla carta.
A 22 anni, nel 1931, andai in Africa. In Costa d'Avorio comprai una macchina fotografica in miniatura, di un tipo particolare che non avevo mai visto prime e che non vidi più in seguito, della ditta francese Krauss. Occorreva una pellicola di un formato come quella di 35 mm. senza la perforazione. Per un anno me ne servii per fotografare. Quando tornai in Francia feci sviluppare le foto - non avevo potuto farlo prima perché ero vissuto nella giungla, isolato, per la maggior parte di quell'anno, - e scoprii che l'umidità aveva rovinato la macchina e che tutte le mie fotografie erano "decorate" da enormi macchie.
In Africa avevo preso una febbre virale e fui obbligato a curarmi. Andai a Marsiglia, vivevo grazie a una piccola rendita e lavoravo con gioia. Avevo appena scoperto la Leica che divenne un prolungamento del mio occhio e d'allora non me ne sono mai separato. Giravo tutto il giorno per le strade, sentendomi sempre in agguato, pronto a gettarmi per "intrappolare" la vita, a conservarla nel momento stesso in cui è vissuta. Ciò che desideravo di più di tutto era di afferrare nei confini di una singola fotografia, l'intera essenza di una situazione, che si stava svolgendo davanti ai miei occhi. L'idea di fare un reportage fotografico, cioè, di raccontare una storia con una sequenza di fotografie, era qualcosa che a quel tempo non mi passava nemmeno per la testa. Incominciai a capire di più qualche tempo dopo, osservando il lavoro dei miei colleghi e le riviste illustrate. In realtà è stato solo lavorando per queste riviste, che ho imparato, a poco a poco, a fare un reportage fotografico, e a raccontare una storia con le immagini.
Ho viaggiato molto, anche se in realtà non so viaggiare: mi piace fare con calma, lasciando fra una nazione e l'altra un intervallo di tempo per assimilare ciò che ho visto. Appena arrivo in una nazione nuova, vorrei quasi fermarmi definitivamente, per trovare il giusto rapporto con essa: non potrei mai essere un glob-trotter.
Nel 1947, cinque fotografi free lance, me compreso, fondarono una agenzia fotografica: la "Magnum Photos".
Questa agenzia distribuisce i nostri reportage.? allo riviste in diverso nazioni.
Sono passati 25 anni da quando ho cominciato a guardare attraverso il mirino, tuttavia mi considero ancora un amatore, benché non sia più un dilettante.
IL REPORTAGE FOTOGRAFICO
Ma che cos'è in realtà un reportage fotografico? A volte una singola fotografia è in sé talmente ricca di forza e di significati, da divenire una storia intera, ma questo capita raramente. I vari elementi che insieme illuminano un soggetto, sono spesso dispersi in termini di spazio o tempo e rimetterli insieme con la forza, è un'azione di "regia" e di (rode. Ma se è possibile fare delle fotografie sia del nucleo che dei vari elementi significativi del soggetto, questo è un reportage fotografico. La pagina serve a riunire gli elementi complementari che sono dispersi in molte fotografie.
Il reportage implica un'azione congiunta del cervello, dell'occhio e del cuore. L'obiettivo di questa operazione complessa è ritrarre il contenuto di alcuni eventi che sono in fase di svolgimento e quindi comunicarne le impressioni; talvolta un singolo avvenimento può essere così ricco e sfaccettato, che diventa necessario muovercisi intorno, nella ricerca della soluzione al problema che pone, giacché il mondo è in movimento e non si può rimanere statici di fronte alla dinamicità dei fenomeni. Talvolta si centra il punto in pochi secondi, altre volte invece il procedimento richiede ore o giorni. Comunque sia, non esiste un piano standard, nessuno schema di lavoro. Occorre stare sempre all'erta con il cervello, l'occhio e il cuore e avere agilità nel corpo. Le cose così come sono, offrono una tale abbondanza di materiale, che il fotografo deve trattenersi dalla tentazione di provare a fare tutto. È essenziale tagliare dal materiale grezzo della vita: tagliare e tagliare, ma con attenzione. Durante ogni istante di lavoro, il fotografo deve raggiungere una precisa coscienza di quello che sta cercando di fare. Talvolta si ha la sensazione di avere già scattato l'istantanea più significativa di una particolare situazione o scena, non di meno ci si trova a scattare impulsivamente, poiché non si può sapere in anticipo con esattezza come la situzione o la scena si svolgerà. Bisogna vivere in simbiosi con la scena, proprio per essere pronti nel caso in cui gli elementi della situazione dovessero di nuovo scaturire dal nucleo dell'azione. Contemporaneamente è essenziale evitare di usare la macchina fotofrafica come una mitragliatrice e di appesantirsi con immagini inutili che confondono la nostra memoria e appannano la coerenza del reportage.
La memoria è molto importante, particolarmente rispetto al lavoro di scelta di ciascuna fotografia scattata galoppando alla stessa velocità dell'azione in svolgimento. Il fotografo deve essere sicuro, mentre è in presenza della scena che si sta dispiegando, di non aver perso alcun passaggio, di aver realmente espresso il significato unitario della scena. Dopo sarebbe troppo tardi. Il fotografo non può far retrocedere gli avvenimenti, per fotografarli di nuovo.
I fotografi si trovano sempre di fronte a un'alternativa e qualsiasi soluzione induce necessariamente a dei rimpianti. Esiste la scelta che facciamo quando inquadriamo il soggetto, e quella che facciamo dopo aver sviluppato e stampato la pellicola. Dopo lo sviluppo e la stampa, dovete occuparvi di fare una scelta tra le immagini, mettendo da parte quelle che, sebbene corrette, non sono le più incisive. Vi accorgerete allora, quando è troppo tardi, con terribile chiarezza, dove avete fallito. A questo punto, ricorderete il sentimento rivelatore che avevate provato mentre stavate fotografando. Era un momento di esitazione dovuto all'incertezza? Era causato da una separazione fisica tra voi e l'evento? Era semplicemente il fatto che voi non consideravate un certo dettaglio in relazione all'insieme? O (e questo è più frequente), il vostro sguardo era distratto, i vostri occhi erano disattenti?
Per ognuno di noi Io spazio parte dal nostro stesso occhio e degrada progressivamente verso l'infinito: lo spazio al momento attuale ci colpisce con minore o maggiore intensità e poi ci lascia, visualmente, per rinchiudersi nella nostra memoria e per modificarvisi. Di tutti i mezzi espressivi , la fotografia è la sola che fissi per sempre, proprio l'istante transitorio. Noi fotografi trattiamo soggetti che svaniscono continuamente, e quando sono scomparsi, non sono più disponibili, e non esiste mezzo al mondo di farli rivivere. Non possiamo stampare e sviluppare la memoria. Lo scrittore ha tempo di riflettere: egli può accettare e respingere, accettare ancora e, prima di affidare il suo pensiero al foglio, è in grado di leggere insieme gli elementi più rilevanti. C'è anche un periodo di stasi, quando il suo cervello dimentica, mentre il suo subcosciente lavora, classificando i pensieri. Per i fotografi, invece, ciò che è andato, è andato per sempre. Da questo fatto, nasce l'ansia e la forza della nostra professione. Non possiamo rifare la storia, una volta tornati all'albergo: il nostro compito è di percepire la realtà, e, quasi simultaneamente, registrarla, in quel notes che è la nostra macchina fotografica. Noi non dobbiamo, né manipolare la realtà, mentre stiamo fotografando, né manipolare i risultati nella camera oscura. Questi trucchi, sono facilmente individuabili per chi sa vedere.
Facendo un reportage fotografico, dobbiamo tener conto dei punti e dei rounds, come un arbitro di box. In ogni reportage fotografico che cerchiamo di fare, siamo obbligati ad arrivare come degli intrusi. È necessario, tuttavia, avvicinarsi al soggetto in punta di piedi, anche se si tratta di una natura morta. Una mano di velluto, un occhio di falco, questi requisiti che tutti devono avere: non serve farsi avanti a gomitate. E neppure fotografare con l'aiuto di qualche riflettore, se non altro per rispetto della luce naturale, anche quando di luce non ce n'è. Se un fotografo non osserva queste condizioni, può diventare intollerabile ed aggressivo.
La professione dipende a tal punto dalle relazioni che il fotografo stabilisce con la gente che fotografa, che un rapporto falso, una parola o un atteggiamento sbagliato, possono rovinare tutto.
Quando il soggetto si trova per qualsiasi ragione a disagio, la personalità scompare dove la macchina fotografica non può raggiungerla. Non ci sono regole fisse, perché ogni caso è a sé e richiede discrezione, anche se noi dobbiamo essere sempre a portata di mano. Le reazioni della gente differiscono molto da paese a paese, e da un gruppo sociale all'altro. In tutto l'Oriente per esempio, un fotografo impaziente, o che ha semplicemente fretta, è soggetto al ridicolo. Se vi siete fatti notare, anche solo tirando fuori l'esposimetro, la sola cosa da fare è dimenticare per il momento di fotografare, adattarsi, e permettere ai bambini che si precipitano da voi di aggrapparsi alle vostre ginocchia, come dei cuccioli.
IL SOGGETTO
Vi sono soggetti in tutto ciò che avviene nel mondo, come nel nostro universo personale. Non possiamo negare il soggetto. È ovunque. Così dobbiamo essere lucidi verso ciò che sta accadendo nel mondo, e onesti verso ciò che noi sentiamo.
Il soggetto non è composto da una collezione di fatti, perché i fatti in se stessi, sono di poco interesse. Attraverso i fatti, comunque, possiamo raggiungere la comprensione delle leggi che li governano e maggiormente possiamo scegliere quelli essenziali che comunicano la realtà.
In fotografia la cosa più banale può diventare un grande soggetto, il piccolo dettaglio umano, può costituire un leit-motiv. Vediamo e mostriamo il mondo attorno a noi, ma è l'evento in se stesso che provoca il ritmo organico delle forme.
Ci sono migliaia di vie per distillare l'essenza di qualcosa che ci avvince, non catalogatele. Noi vogliamo lasciare tutto intatto, nella sua freschezza.
C'è un intero territorio di cui la pittura non si interessa più. Alcuni dicono che ciò dipende dalla scoperta della fotografia. Comunque sia, la fotografia ha perso una parte di questo territorio, nella forma di illustrazione.
Un genere altamente disprezzato dai pittori oggi, è il ritratto. L'abito da società, il cappello militare, il cavallo, fanno ribrezzo al pittore più accademico. Si sentono soffocati da tutte le ghette dei ritrattisti Vittoriani. Per i fotografi, forse, anche perché tendiamo a un valore meno permanente ciò non è irritante, quanto piuttosto divertente, perché noi accettiamo la vita in tutta la sua realtà.
La gente ha urgenza di perpetuare se stessa con un ritratto, offre il loro migliore profilo per i posteri. Mischiata a questa urgenza, tuttavia, c'è anche la paura della magia nera, una sensazione, che, sedendosi in uno studio fotografico per ritratti, si espongano agli artifici di una qualche magia.
Uno dei fascini dei ritratti è il modo in cui ci permettono di rintracciare l'identità sostanziale dell'uomo. La continuità dell'uomo, traspare comunque dalle esteriorità che lo costituiscono, anche se solo a livello del tipico errore di chi scambia lo zio per il nipote, nell'album di famiglia. Se il fotografo deve avere la possibilità di riflettere veramente il mondo di una persona, così dentro come fuori di lui, è necessario che il soggetto del ritratto sia in una posizione naturale.
Dobbiamo rispettare l'atmosfera che circonda l'essere umano e integrare nel ritratto l'habitat dell'individuo, perché l'uomo, non meno che gli animali, ha il suo habitat. Soprattutto il modello deve essere portato a dimenticarsi la macchina fotografica, e l'uomo che l'ha in mano. Complicati equipaggiamenti e riflettori, e vari altri macchinari, sono sufficienti, secondo me. ad impedire all'assenza più intima e vera di emergere.
Che cosa c'è di più fugace e transitorio dell'espressione di un volto umano? La prima impressione che suscita un volto particolare, è spesso quella giusta, ma il fotografo deve sempre cercare di corroborare questa prima impressione, "vivendo" con la persona interessata. Il momento decisivo e la psicologia, non meno della posizione della macchina fotografica, sono i fattori principali per ottenere un buon ritratto. A me sembra che sarebbe abbastanza difficile essere un ritrattista per clienti che pagano e ordinano, perché eccetto un Mecenate o due, vogliono solo essere adulati, e il risultato non è più veritiero. La persona che si fa ritrarre è sospettosa dell'obbiettività della macchina fotografica, mentre ciò che cerca il fotografo, è un acuto studio psicologico del modello.
È anche vero che una sorta di identità è manifesta in tutti i ritratti fatti da un fotografo. Il fotografo è alla ricerca dell'identità del modello, e cerca anche di soddisfare un'espressione di se stesso. Il vero ritratto non esalta né il lato gradevole, né quello grottesco, ma riflette la personalità.
Personalmente preferisco ai ritratti artefatti quelle piccole foto-tessera, incollate una accanto all'altra, in file regolari nelle vetrine dei fotografi. Almeno su quei volti c'è qualcosa che suscita una domanda, una semplice testimonianza fattuale - questo al posto della poetica identificazione che noi cerchiamo.
LA COMPOSIZIONE
Se un fotografo deve comunicare il suo oggetto con tutta l'intensità, le relazioni formali devono essere rigorosamente stabilite. La fotografia implica la ricognizione di un ritmo, nel mondo delle cose reali. Ciò che l'occhio fa è cercare e localizzarsi su un particolare oggetto nella massa della realtà; la macchina fotografica, invece, registra semplicemente la scelta fatta dall'occhio. Noi guardiamo e percepiamo una fotografia come un quadro nel suo insieme e con un'occhiata. In una fotografia, la composizione è il risultato di una coalizione simultanea, l'organica coordinazione degli elementi, visti dall'occhio. Non si aggiunge la composizione come se fosse un ripensamento sovrapposto al soggetto di base, dal momento che è impossibile separare il contenuto dalla forma. La composizione deve avere la sua inevitabilità.
Nella fotografia esiste un nuovo genere di plasticità prodotta dalle linee istantanee, composte dai movimenti del soggetto. Noi lavoriamo all'unisono con il movimento come se fosse un presentimento del modo in cui si svolge la vita. Ma all'interno del movimento esiste un momento in cui gli elementi dinamici si equilibrano. La fotografia deve fissare questo istante e mantenerne immobile l'equilibrio.
L'occhio del fotografo deve sempre vagliare; un fotografo può creare coincidenze di linee, semplicemente muovendo la testa per una frazione di millimetro. Egli può modificare le prospettive con un leggero piegamento delle ginocchia. Avvicinando o allontanando la macchina fotografica dal soggetto, egli estrae un dettaglio che può essere subordinato, o che, a sua volta, può invece tiranneggiarlo. Ma egli compone un'immagine quasi nello stesso lasso di tempo che gli occorre per schiacciare l'otturatore, alla velocità di una azione riflessa.
Qualche volta accade che si esiti, si attende qualcosa che deve accadere. Qualche volta si ha la sensazione che ci siano tutti gli elementi adatti per fare una fotografia, eccetto che uno. Ma quale? Accade per caso che qualcuno entri improvvisamente nel vostro campo visuale; lo seguite col mirino. Aspettate e aspettate, e allora finalmente scattate - ve ne andate con la sensazione (sebbene non sappiate perché) di aver realmente fatto qualcosa. Più tardi, per verifi-care ciò, potete stampare questa foto, tracciarvi delle figure geometriche che emergono dall'analisi, e voi osserverete che, se l'otturatore è scattato nel momento decisivo, avete istintivamente fissato uno schema geometrico, senza il quale la fotografia sarebbe risultata informe e senza vita.
La composizione deve essere una delle nostre costanti preoccupazioni, ma al momento di fotografare può nascere solo dalla nostra intuizione. Perché noi dobbiamo catturare il momento fuggitivo e tutte le relazioni coinvolte sono in movimento. Applicando la Regola Aurea, l'unico compasso a disposizione del fotografo sono i suoi stessi occhi. Ogni analisi geometrica, ogni riduzione della fotografia ad uno schema può essere fatta solo (e ciò dipende dalla sua natura) dopo che la fotografia stessa è stata scattata, sviluppata e stampata; e poi lo schema può essere usato solamente come esame a posteriori. Mi auguro che non venga mai il giorno in cui vedremo i negozi per fotografi vendere piccole griglie da applicare ai mirini e che la Regola Aurea, non sia incisa sul vetro smerigliato.
Se voi partite tagliando e correggendo una buona fotografia, significa la morte del gioco geometricamente corretto delle proporzioni. Inoltre accade molto raramente che una fotografia già debolmente composta, possa essere salvata ricostruendone la composizione sotto l'ingranditore; l'integrità della visione è sparita. Si parla molto di diverse angolazioni della macchina fotografica, ma le sole valide angolazioni esistenti sono quelle geometriche delle composizioni e non quelle fatte dai fotografi che si sdraiano pancia a terra o escogitano altre stramberie del genere per ottenere i loro effetti.
IL COLORE
Parlando della composizione, abbiamo pensato soltanto in termini di quel colore simbolico che è il nero. La fotografia in bianco e nero è una astrazione, una deformazione. In essa tutti i valori sono trasposti, e questo lascia possibilità di scelta.
La fotografia a colori presenta un numero di problemi che sono difficili da risolvere oggi, alcuni di essi sono anche difficili da prevedere, a causa della sua complessità e della sua relativa immaturità. Al momento emulsioni per le pellicole a colori sono ancora molto lente. Conscguentemente i fotografi che usano il colore hanno tendenza a limitarsi a soggetti statici oppure ad usare luci artificiali molto forti. La lentezza delle pellicole a colori riduce la profondità di campo nelle immagini prese da vicino, e questa difficoltà da spesso composizioni piatte. Oltre a questo, gli sfondi sfocati della fotografia a colori, sono spiacevoli.
Le fotografie a colori, in diapositiva, sembrano a volte abbastanza belle. Ma poi subentra l'incisore e c'è da augurarsi che esista con lui un completo accordo come avviene nel campo della litografia. Da ultimo ci sono gli inchiostri e la carta, entrambi sono in grado di agire imprevedibilmente. Una fotografia a colori riprodotta su una rivista o su una edizione di semi--lusso, qualche volta da l'impressione di una dissezione anatomica tirata via.
È vero che la riproduzione a colori di quadri e documenti raggiunto una certa fedeltà, dall'originale, ma quando il colore cerca di riprodurre la vita reale, è un'altra cosa. Noi siamo solo nell'infanzia della fotografia a colori. Ma con questo non voglio dire che non dobbiamo più interessarci al problema, o sederci ad aspettare che ci caschi in grembo la pellicola a colori perfetta - magari imballata con il talento necessario per usarla. Dobbiamo continuare a cercare la nostra strada.
Benché sia difficile prevedere esattamente in che modo la fotografia a colori si svilupperà nel foto-reportage, sembra evidente che richieda una nuova disposizione mentale, un approccio diverso da quello adeguato al bianco nero. Personalmente temo che questo complesso elemento nuovo, possa contribuire a pregiudicare la resa della vita e il movimento che è spesso fissato dal bianco e nero.
Per essere realmente capaci di creare nel campo del colore fotografico, dovremmo trasformare e modulare i colori, e così acquistare libertà di espressione nel quadro delle leggi codificate dagli Impressionisti e dai quali neppure un fotografo può prescindere. (La legge, per esempio, del contrasto simultaneo: la legge che ogni colore tende a colorare lo spazio vicino ad esso con il suo colore complementare, cioè che se due tonalità contengono un colore che è comune a entrambi, questo colore comune è attenuato se mettiamo le due tonalità una accanto all'altra; che due colori complementari, posti l'uno accanto all'altro, acquistano forza di espressione entrambi, ma mischiati si annullano a vicenda e così via...). L'operazione di trasportare un colore del mondo naturale su una superficie stampata, pone una serie di problemi estremamente complessi. Per l'occhio alcuni colori emergono, altri, invece, retrocedono. Così bisogna possedere l'abilità di equilibrare le relazioni dei colori tra loro, perché i colori che si pongono in natura, nella prospettiva spaziale, reclamano una diversa dislocazione su una superficie piana - sia quella di una tela o di una fotografia.
Le difficoltà intrinseche di una istantanea, sono precisamente il fatto che noi non possiamo controllare il movimento del soggetto, e nel reportage fotografico a colori, la reale difficoltà è che siamo incapaci di controllare le interrelazioni cromatiche del soggetto. Non dovrebbe essere difficile aumentare la lista delle difficoltà intriseche, ma è abbastanza chiaro che l'evoluzione della fotografia è connessa all'evoluzione della sua tecnica.
LA TECNICA
Le continue scoperte nel campo della chimica e dell'ottica, stanno ampliando in modo considerevole il nostro campo d'azione. Tocca a noi applicarle alla nostra tecnica per migliorarci, ma esiste un intero gruppo di pregiudizi che si sono formati riguardo al problema della tecnica.
La tecnica è importante solo in quanto riusciamo a servircene per comunicare ciò che vogliamo. La tecnica personale di ciascuno deve essere creata ed adattata solo per rendere efficace una certa visione sulla pellicola, ma solo i risultati contano, l'evidenza finale è la fotografia stampata, altrimenti non si porrebbe fine alle storie raccontate dai fotografi su delle fotografie che stavano per fare, ma che in realtà sono solo un nostalgico rimpianto.
La professione di foto-reporter esiste solo da 30 anni. Si è sviluppata grazie alla comparsa di macchine fotografiche facilmente maneggiabili, di obiettivi più luminosi e dalle pellicole a grana fine prodotte per il cinema. La macchina fotografica è per noi uno strumento, non un bel giocattolo meccanico. Nel perfetto funzionamento di questo oggetto meccanico, forse cerchiamo un'inconscia compensazione alle ansietà e alle incertezze dell'affanno quotidiano. In ogni caso si pensa troppo alla tecnica e troppo poco al vedere.
È sufficiente che un fotografo si senta a suo agio con la sua macchina e che questa sia adatta al lavoro che vuoi fare. Il modo di usarla, le sue tacche, le sue velocità di esposizioni e tutto il resto dovrebbero diventare automatici, come il cambiare una marcia in automobile. Non spetta a me addentrarmi nei dettagli di queste operazioni, anche delle più complicate, perché sono tutte esposte con precisione militaresca nelle istruzioni che i fabbricanti danno insieme alla macchina fotografica ed alla bella custodia in pelle. Se 1 a macchina è un bel giocattolo, dovremmo superare questo ostacolo almeno parlandone. Lo stesso si può dire dei "come" e dei "perché" ottenere graziose stampe in camera oscura.
Mentre sì ingrandisce, è essenziale ricreare i valori e lo stato d'animo del momento in cui fu scattata la fotografia. Si può anche modificare la stampa in modo da riflettere le intenzioni del fotografo nel momento in cui faceva la fotografia. Bisogna anche ristabilire quell'equilibrio tra luce ed ombra che l'occhio stabilisce in continuazione. Ed è per questo che l'ultimo atto della creazione di una fotografia avviene in camera oscura.
Mi diverte sempre l'idea che certa gente ha della tecnica fotografica. Un'idea che si manifesta in un insaziabile desiderio di immagini nitide. Si tratta di un'ossessione? Oppure questa gente crede, con la tecnica del colpo d'occhio ("trompe l'oeil"), di afferrare meglio la realtà? In ogni caso sono tanto lontani dal vero problema, quanto lo erano quei fotografi della generazione precedente che arricchivano i loro aneddoti fotografici, con un flou voluto perché considerato "artistico".
I CLIENTI
La macchina fotografica ci permette di redigere una cronaca visuale. Per me, è il mio diario. Noi foto-reporters forniamo notizie ad un mondo in corsa, appesantito da preoccupazioni, incline alla cacofonia, e pieno di esseri affamati di notizie e bisognosi di immagini. Inevitabilmente, mentre scattiamo fotografie, giudichiamo ciò che vediamo e questo implica una grossa responsabilità, noi comunque dipendiamo dalla stampa dato che, come artigiani, consegnarne il nostro materiale alle riviste illustrate.
È stato senz'altro un'esperienza emozionante l'aver venduto la mia prima fotografia (alla rivista francese "Vu"). Fu l'inizio di una lunga collaborazione con le riviste; sono i periodici che ci creano un pubblico, e fanno conoscere e sanno come offrire i reportages, rispettando le intenzioni del fotografo. Ma a volte, purtroppo, le stravolgono. Le riviste possono pubblicare ciò che il fotografo desiderava mostrare, ma il fotografo corre il rischio di essere condizionato dai gusti e dalle esigenze della rivista stessa.
In un reportage fotografico le didascalie dovrebbero fornire alle fotografie un contesto verbale e dovrebbero sottolineare tutti quegli elementi che la macchina fotografica non è stata in grado di cogliere; purtroppo spesso al redattore scappano degli errori che non sono solo di ortografia o di linguaggio. E spesso il lettore ritiene responsabile di ciò il fotografo. Questo cose accadono.
Le fotografie passano per le mani del redattore e dell'impaginatore. Il direttore deve scegliere tra le 30 fotografie che in genere compongono il reportage medio (è come se dovesse fare a pezzi un articolo per ricavarne una serie di citazioni!). Per un reportage, come per un romanzo, ci sono delle forme fisse. Le fotografie scelte devono essere impaginate su due, tre o quattro pagine secondo l'interesse che possono suscitare o secondo la disponibilità di carta.
La grande abilità dell'impaginatore sta nel saper scegliere nel mucchio, la fotografia che merita una pagina intera o due pagine, nel saper dove inserire la fotografia più piccola, come legame indispensabile nella storia. (Il fotografo nel momento in cui scatta la fotografia dovrebbe pensare al modo migliore per impaginare). Spesso l'impaginatore deve tagliare una foto per lasciarne solo la parte più significativa, poiché, per lui, è soprattutto l'unità della pagina che conta. Un fotografo non apprezzerà mai abbastanza l'impaginatore che da una bella presentazione al suo lavoro, mantenendo il significato della storia; un menabò in cui le fotografie sono correttamente spaziate e ben presentate, ed in cui in ogni pagina possegga una sua architettura ed un suo ritmo.
C'è un terzo momento d'angoscia per un fotografo, quando cerca la sua storia su una rivista.
Ci sono molti modi per diffondere la nostra fotografia oltre la pubblicizzazione sulle riviste. Le mostre, per esempio, ed i libri che sono delle mostre permanenti.
Ho parlato a lungo, ma di un solo tipo di fotografia. Esistono molti generi. Certamente l'istantanea sbiadita che si tiene nel portafoglio, il lucido catalogo pubblicitario, e la vasta gamma intermedia sono fotografie. Non cerco di definire la fotografia per tutti, cerco di definirla per me stesso.
Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e della precisa organizzazione di forme che gli conferisce la sua espressione appropriata.
Credo che, vivendo, scopriamo noi stessi, scoprendo il mondo che ci circonda, che può influenzarci, ma che può anche essere influenzato da noi. Bisogna stabilire l'equilibrio tra il nostro mondo esteriore e interiore. Con una interazione costante questi moduli arrivano a fondersi in uno solo. Ed è questo mondo che dobbiamo comunicare.
Ma con ciò si prende in considerazione solo il contenuto della fotografia. Per me il contenuto non può essere separato dalla forma, e per forma intendo l'organizzazione rigorosa dell'interazione delle superfici, delle linee e dei valori. I nostri concetti e le nostre emozioni si concretizzano e diventano comunicabili solo all'interno di questa organizzazione. Nella fotografia l'organizzazione visuale, nasce solo da un istinto sviluppato. (trad. di S.Mascheroni)