Come ogni volta che attraverso luoghi di battaglia, il pensiero corre ai nostri nonni (non solo Veneti, Friulani, Lombardi e Piemontesi, ma Italiani) che su vette simili hanno lottato, ucciso, sperato, pregato.

Un osservatorio, una trincea, uno scavo mi fanno immaginare (per quanto lontanamente) quale potesse essere la frenesi del fronte, la calma che precedeva il “Savoia!” che indicava l’immediato balzo all’esterno della trincea.


Postazioni di mitragliatrici, di cannoncini leggeri, di obici da 35 km di gittata (il lungo Giorgio appostato a Calceranica, in Valsugana, che bombardava Asiago).

Cippi che ricordano il sacrificio di ragazzi ventenni a loro coetanei che non sanno nemmeno che c’è stata guerra dove adesso loro camminano, nella strada davanti casa, dove sfrecciano con i motorini.

L’odore del gas, che come nebbia risale le pendici spinto dal vento o che come una cappa riempie le depressioni dell’altopiano, stagnando dentro le buche dei mortai.

La pazzia di comandanti, le preghiere del nemico che dicevano "basta avanzare, basta per piacere"...

Il rumore dello scoppio dei proiettili e delle bombe, il sibilo delle schegge che fendevano l'aria, il tintinnio del materiale che ricadeva sull'elmetto.


Gavette, razioni, reticolati. Materiali portati su spalle, su muli, da chi in quei luoghi adesso mostra solo qualche osso, o una vecchia suola che riposa accanto alle rocce.


"Fanteria Zappatori IX XVI", un'iscrizione terminato lo scavo e prima di imbracciare il fucile...per dire "io sono stato qui per voi, ricordatevi di me".


Montagne dilaniate fino alla roccia, scavate per paura e riparo, montagne che tutti dovremmo chiamare "casa".




Un ricordo ai caduti "nemici", nostri fratelli, per difendere quella che era terra loro. I morti sono tutti uguali.


Una frana, un reticolato, un fiore. Cosa, chi ha nutrito quel fiore perché cresca sulla fredda roccia?


"Di qui non si passa", il motto degli Alpini a ricordare che dietro le proprie spalle c'era la "baita", il suolo natio, i propri cari.

Una bandiera sgualcita, che riporta le parole di un inno che spesso si deride e che troppo spesso non si conosce.

Una stella alpina accanto ad un capitello, un’immagine della Beata Vergine a cui affidarsi, un saluto per i propri cari sussurrato a Lei.

Nella nebbia, figure dai contorni indefiniti e vecchie, familiari cantilene alpine che mi ricordano che su queste montagne non sono mai solo. Mai.

Quando capiremo che dobbiamo fermarci?